Alcune recensioni
«Cento madri», storia del tradimento
La storia di un tradimento - del tradimento - dura un
centinaio di pagine. Dura quanto l’abbandono dell’infanzia, o forse dura molto
di più. Quello che conta è che, una volta che si è entrati in questa storia,
bisogna lasciarsi il tempo di farsi guidare da lei. Un po’ come quando si
visita una vecchia dimora: e una stanza segue a una stanza, segue a un’altra
stanza. Senza corridoi: in un’infilata che è, insieme, una discesa alle parti
più nascoste ed intime della struttura. Per capirla tutta, questa dimora,
bisogna arrivarci in fondo: e ascoltare i suoi mobili, le boiserie un poco
dimesse, le fotografie che restituiscono squarci di attualità immobile,
l’abbondanza di suppellettili più e meno polverose. E anche le infiltrazioni
dell’esterno: la vita dell’altrove, che penetra attraverso dicerie, finestre,
merci. L’ultimo libro di Alfonso Lentini ha esattamente questo ritmo: quello di
un sogno denso che, a tratti, sfocia nell’incubo. Ma poi cambia ancora, si
solleva, muta e diventa visione. “Cento madri” - edito da Foschi e vincitore
del premio “Città di Forlì” - viaggia al tempo del monologo interiore: una
sorta di ode al femminino, ma visto dal basso e da occhi non femminei. Il
piccolo protagonista è piccolo solo in apparenza, e il suo universo, chiuso
dalle pareti del palazzo in cui vive, non è che il preludio di qualcosa di ben
più ampio. Sullo sfondo di una Sicilia opulenta, languori e ribellioni si
confondono gli uni negli altri: così come la vita, la morte, il sesso, la
perdita e l’illusione. In ognuna di queste stazioni si ferma la mente del
protagonista: che si autodenuncia traditore fin dalla primissima riga, e per
mano accompagna lungo la trama delle sue riflessioni, dei suoi segreti, delle
sue contraddizioni. Tutto quello che è necessario accada accade attraverso il
pensiero e la percezione: lasciata la dimensione più narrativa di “Un bellunese
in Patagonia”, Alfonso Lentini si lega con questo nuovo libro ai temi già cari
in altri lavori precedenti, da “Piccolo inventario degli specchi” a “La chiave
dell’incanto”. Tutto è avvolto da una sottile pellicola di mistero, i simboli
sono scopertamente importanti, la lingua si piega all’invenzione, all’umore,
all’ambiguità percettiva e diventa una specie di gesto. Riuscirà la malia delle
“Cento madri” a dominare il piccolo protagonista, ad asservirlo all’universo
che gli ha creato tentando di cucirlo addosso al suo stesso respiro? Per
capirlo occorre entrare nel madrificio, e ascoltare il suono del suo
incantesimo che, da sempre, lega il dono all’abbandono.
Michela Fregona
Alfonso Lentini, Cento Madri, pp. 134, E. 11,90, Foschi, Forlì 2010.
Non nuovo all’esperienza narrativa (Un bellunese di Patagonia, Stampa
Certo, qualcosa è qui narrato; il libro è traversato da un’improbabile storia: quella di un bambino (ragazzino, principino, ma anche mostriciattolo) che subisce le cento madri, cioè la vita. Ma la scrittura è ciò che prevale a ogni passo: una scrittura messa in gioco con uno stile assai personale, e giocata fino a quel gesto conclusivo che contiene il senso dell’intero. Singolare versione del detto «nella fine c’è l’inizio» (che scorrazza nella cultura tedesca perennemente turbata dalle “origini”), il capitolo 68 di Cento madri si snoda con un sapore di terra italica: «Andando imparo dove devo andare». Si tratta di una dichiarazione ad angoli retti del proprio sperimentalismo. Infatti sperimentare equivale proprio a imboccare un tragitto e
farsene guidare. Strada facendo impareremo dove dirigerci: sarà lo stile medesimo che stiamo sperimentando a prenderci per mano e condurci proprio là dove dobbiamo andare. La chiusa è insomma il miglior manifesto teorico del romanzo.
Un manifesto di quella quiete silenziosa di cui il libro è pervaso. Anche nella dinamica delle scene più fulminanti si avverte la quiete assolata del Meridione, la carne abitata dal tormento mite della rassegnazione (ma sempre tormento). Una quiete doverosamente reclamata dal tema della madre, anzi delle cento madri: le cento facce emaciate e rugose della terra, della genesi.
Alla fine del romanzo un quesito ci sporge spontaneo: non sarà per caso un’autobiografia? Il gesto finale di chi uccide non si solleva infatti tra «spade e cavalli bianchi»: è uno sportello di treno che sbatte, è la scena di un commiato, forse la fugace, laconica scena di quell’addio alle cento madri che ha infine deciso il destino dell’autore. Resta lo stupore per come avrà fatto a scrivere così: un libro minuscolo e ben cadenzato giunge a conclusione lasciando sul palato il sapore di aver preso parte allo spettacolo – inquieto ma garbato – della scrittura.
Antonio Castronuovo
Recensione
di Gualberto Alvino pubblicata in La Piê (maggio-giugno
2009, anno LXXVIII, numero 3), in Fermenti
(2009, anno XXXVIII, n. 2) e in vari siti internet
Al critico militante càpita purtroppo
sempre meno spesso di ricevere un libro non si dice di qualche decoro, ma che almeno
valga, se non intero, un decimo del prezzo della carta su cui è stampato; sicché
non meraviglia che possa perfino esultare di fronte a un “fuori sacco” come Cento madri, opera rotonda, compiuta, plenariamente
persuasiva, appena data fuori per il Foschi di Forlì dal poliartista girgentino
e bellunese d’adozione Alfonso Lentini.
Via di mezzo tra poème en prose e ‘mito’ in lasse (piuttosto che romanzo, come lo
definisce nella postfazione Paolo Ruffilli, additando per giunta un plot storico, sociologico,
insomma naturalistico che non esiste affatto, o, se esiste, costituisce solo
una falsariga, un depistamento, non più che un aroma), in Cento madri la lingua impera sì, ma — sogno di tutti i narratori, non
esclusi i più sordi al problema della ricezione, ossia i più attenti al versante
formale — senza soffocare né menomamente scalfire l’efficacia e l’integrità
della fabula, che avvince e coinvolge, come si dice, dal primo all’ultimo rigo.
Benché, sia chiaro, Lentini non descriva ma evochi; non tessa trame ma semini
indizî e vi indugi ad
libitum, ben sapendo che il vero senso, l’unico che importi, s’annida nei frastagli
del significante;
si rida dei percorsi ma ne lasci avvertire il ductus, devoto al principio immaterialistico «esse
est percipi», fecondo quant’altri mai nella letteratura e nell’arte del Novecento.
Una lingua — distillata da cento lingue —
classicamente selettiva e al tempo stesso cosparsa di mine espressivistiche
costantemente in procinto di esplodere (se non esplodono è per la misura
dell’artefice, che sa domare la materia movendosi come un puma tra i
cristalli): mirabile contrasto stilistico in cui raramente, di questi tempi, è
dato imbattersi nella nostra letteratura sostanzialmente di consumo.
Mito in lasse, ma anche treatment (la fase intermedia
tra il soggetto e la sceneggiatura), perché lo scrittore siciliano pensa e
costruisce non solo per successione d’accordi (che Cento madri sia essenzialmente una sinfonia, nel senso squisitamente
pizzutiano del termine — come d’altronde pizzutiana è la scansione in lasse —, mi
sembra evidente), ma per quadri in movimento.
Prosa, insomma, con gli strumenti della
poesia. Del resto Lentini è noto come creatore di forme, come un musicista
della letteratura per il quale la massima di Pater — «All art constantly aspires towards the
condition of music» — è sempre stata una guida.
Se la nostra società letteraria somigliasse
anche solo in minima parte a quella degli anni Sessanta, se i varî D’Orrico che
ammorbano le nostre gazzette valessero un’unghia di Luigi Baldacci o un capello
di Carlo Bo, quest’opera sarebbe accolta con cento ovazioni.
Gualberto Alvino
Michela Fregona
Le «Cento madri» di Alfonso Lentini
Il Corriere delle Alpi — 15 aprile 2010, pagina 36 sezione: SPETTACOLO
Armatevi
di stupore: inizia il labirinto. E, per camminare nel labirinto,
bisogna saper guardare, non aspettarsi nulla, essere pronti ai cambi di
scena. Così è “Cento madri”, l’ultimo libro di Alfonso Lentini,
pubblicato da Foschi editore: che verrà presentato, sabato pomeriggio,
alle 18, nella sala della Cooperativa di Cirvoi. Sarà Serena Dal Borgo a
prendere per mano il pubblico e, dialogando con l’autore, ad aprire le
porte di questo libro, che racconta la storia del tradimento dei
tradimenti: quello di chi abbandona il mondo che lo ha creato (in
affetto, in amore, in opulenza, in ambiguità) a dispetto di tutto. In
una non definita città della Sicilia, l’esistenza protetta del
“principino” - unico sguardo maschile di tutto il libro - circondato,
assediato, coccolato dalle sue “Cento madri”: vecchie, giovani, belle,
ambigue, maschili e femminili. Un universo ovattato, nel quale il mondo
fa incursioni violente e improvvise: tanto più violente e improvvise
quanta è la volontà delle “Cento madri” di escluderlo fuori dalle
finestre della grande casa. E’ un’opera fascinosa, quella di Alfonso
Lentini, tornato (felicemente) alla dimensione immaginifica cavalcando
una lingua piena di invenzioni: nel solco di quella che è una ricerca
che lo accompagna da tempo. Alfonso Lentini è di origine siciliana, ma
vive da oltre trent’anni a Belluno, dove insegna e si occupa di
scrittura e arti visive. Fra i suoi libri, “La chiave dell’incanto”
(Pungitopo, 1997),”Mio minimo oceano di croci” (Anterem, 2000), “Piccolo
inventario degli specchi” (Stampa Alternativa, 2003) e “Un bellunese di
Patagonia” (Stampa Alternativa, 2005). Nelle sue numerose mostre e
installazioni tenute in Italia e all’estero propone opere basate sulla
valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale. Il Corriere delle Alpi — 15 aprile 2010, pagina 36 sezione: SPETTACOLO
Michela Fregona
Recensione di GianMaria Molli
pubblicata sulla
rivista “Zeta” (settembre 2009), pg. 36
Alfonso
Lentini, poeta, saggista, narratore, è anche pittore. Questa sua collaterale
vocazione artistica è ben presente nel suo ultimo lavoro letterario, Cento Madri, che esce a distanza di
quattro anni dal romanzo Un bellunese di
Patagonia, storia di un emigrante alla rovescia, e di sei anni da quell’autentico
gioiello costituito dal Piccolo
inventario degli Specchi, dove Lentini usa un oggetto, appunto lo specchio,
per proporre una singolare storia del mondo, ma soprattutto per mostrarci il
lato nascosto e oscuro dell’anima umana.
Anche
in quest’ultimo romanzo c’è un mondo, quello delle Cento Madri, racchiuso in
una grande casa in una regione geografica facilmente identificabile nella
Sicilia, sia pure mai espressamente nominata tranne nel prologo (“profumo di
mare siciliano”). E c’è una sorta di esplorazione delle profondità di un uomo,
a partire dalla mitica infanzia di “principino”, circondato, protetto ma anche
soffocato dalle madri del titolo, fino alla dolorosa, inevitabile decisione che
sarà svelata solo nel finale del libro, ma preannunciata già nell’incipit: “Io, che ho commesso il delitto
più atroce, ho avuto cento madri”. Un inizio che sembra ricalcare gli schemi
consueti della narrativa di consumo con l’inserimento di una frase a effetto, che
sarà più volte ripetuta con variazioni nel corso del libro, come per catturare e
tenere viva l’attenzione del lettore. Ma si capisce presto che “il delitto più spaventoso
della storia”, come lo definisce il narratore, sottintende uno stato d’animo: il
rimorso, il complesso di colpa che attanaglia il “principino”, divenuto,
rovesciando le fiabe, “scarafaggio” e “pidocchio”. Non a caso nella sua
intelligente postfazione Paolo Ruffilli avverte: “Il lettore, fin da sùbito
sorpreso e dirottato dall’autore perché rimanga sveglio e non si lasci plagiare
dal racconto, non ci mette poi tanto a capire che la maternità che si dispiega
nelle pagine è piuttosto il rapporto conflittuale con la terra madre ...”.
L’autore,
dunque, non invoglia a scoprire il “delitto”, pressoché scontato, che il
protagonista commetterà alla fine con “un unico gesto”, ma affascina con il
labirinto narrativo e pittorico della scrittura che si incunea nelle profondità
del protagonista, alternando la prima alla terza persona singolare (talvolta la
prima plurale), a sottolineare tanto la partecipazione quanto il dovuto
distacco dalla materia trattata. Il pennello si congiunge alla penna sùbito
dopo l’incipit per caratterizzare con
un tocco di colore una delle Cento Madri: “Quella dalla labbra rosse”, che poi
risulterà la vera madre, “la più
appassionata”, ma che cullava male il bambino “perché tutte le sere piangeva:
il marito la sgridava continuamente...”. Il lettore apprenderà in seguito che
il marito è un’altra madre: la madre direttore. Esistono altre madri maschio,
come la “madre a forma di colonna dorica”, che è “un prete coltissimo e
occhialuto”, indispensabile per la formazione culturale del “principino”,
essendo la madre direttore troppo impegnato a sgridare la madre effettiva e a
curarsi malattie inesistenti. Ma il personaggio maschile di maggior rilievo non
è una “madre”, bensì “l’uomo dalla pelle d’oro”, il minatore che di ritorno
dalla miniera di zolfo dona frammenti di minerale al “principino” e canta con
“voce rocciosa” tragemi d’este focora, per te non ajo abento
notte e dia (tirami fuori da questo calore, per te non ho pace notte e
giorno). Sarà proprio lui a fuggire con la “madre” più desiderata, una madre
cameriera, la “bellissima dagli occhi d’alchimia”, di cui il bambino è da
sempre innamorato al punto da indulgere in fantasie erotiche.
Dopo
aver dato il particolare delle labbra rosse, il pennello-penna traccia un
insieme: “Il gruppo delle madri ... vestite di nero stinto e gobbe”, che
diverranno, quasi con rapidi segni di china “le madri dall’ossatura aviforme” o
“grosse formiche” con “quei loro capini sormontati da invisibili antenne”. Si
va avanti così a capitoli-quadri che ricordano la prosa d’arte del primo
Novecento tanto la scrittura è raffinata, impreziosita da metafore (“le
signorine profumate pronte a immergersi nel miele della passeggiata domenicale”),
e percorsa da onomatopee, come durante il viaggio “su un autobus sghangherato”
(capitolo 21), durante il quale il filo del dialogo dei passeggeri “si perdeva
sopraffatto dai ronchi del motore in salita”. È proprio in questo capitolo che
emerge prepotente, la lingua. Logico il ricorso a termini dialettali, peraltro
assai parco e motivato da esigenze non tanto lessicali quanto ritmiche. Così
“scricchiati”, riferito agli occhi, viene preferito all’italiano spalancati, o
“acchianato” anziché salito (“Il sangue alla testa gli è acchianato a quelli”).
Sparsi nel libro si fanno notare “risolenti” per sorridenti, “filinìa” per
ragnatela, “trazzera” per strada bianca, “ciàule” per taccole, “arraggiati” per
rabbiosi.
In
conclusione un romanzo in cui, come sempre in Lentini, la forma non soggiace al
plot, anche se qui non viene meno la
voglia di narrare raccontando il “delitto” che ogni siciliano (autore compreso,
a dispetto della nota finale) compie quando con “un unico gesto” spezza il
cordone ombelicale che lo lega alla sua terra. Un “delitto” che lascia scie di
amarezza, dolore, un profondo senso di colpa, mitigati però dalla certezza di
avere comunque fatto la scelta giusta.
Gian
Maria Molli
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