opera finalista alla IX edizione del premio Montano
la riga
delfina sfiorando falena corrugando le dita del tempo fiora e fiocca e fiocca e
tocca la bocca del tempo sfiorando coniugando mani e veli lava del viola le
nevie valve del tempo le costole innevate i mari vuoti gli oceani incapsulati
nelle palpebre la riga delfina nell’inguine del tempo e il tempio interrato
sepolto nel bosco del pube sfiorando false reti finte barche bianchi cantàri
stridule ferite nel fax nelle viscere fratte del tempo la riga delfina facendosi
liquida e dolce e sonora siccome lampara lucente sulla pelle marina di notte la
riga delfina così commovente bambina che appare e scompare tra il riverbero
biondo di un vetro tra riverberi blu nicuzza beddra nel ventre di matre che
attende del viola la velatura imminente sul pube sul miele del niente
illeggibile mondo che perde provando e riprovando permanenza che fiocca più
lieve che lava nel ventre nei fianchi nel rene poltiglia virente azzurrivola
svelta che con splendente lama fiora e fiocca mio minimo oceano di croci (e
croci e croci) e croci sul tuo collo nei capelli e croci nella lingua che si
perde nella bianca fragranza del tempio del fiume siccome falena madrigale
siccome si perde si smemoria più profonda più buia del fuoco riposto di un seme
nei seni del vento e si rincorre tra scritte murali e cespugli di grida di
sangue che allaga il cortile in flessione di luci di blu che in riga delfina si
svolge madrigale e liquida e dolce nelle vene del tempo fiora blu rami e libri
al femminile e mentre la macchina da presa gira dall’alto sul mondo questo
nostro aspettare e girare per strade e savane e miserie e mentre la macchina
del tempo ci viaggia ci prosciuga in rovesci di prati e ci circonda mentre nel
tempio profondo si sciolgono le acque del ventre fra rami e velami l’urgenza della mano si fa viva nel melame
ramato del tempo riverbera il carcere opaco la catena di ghiaccio attorno al
collo le cinghie di cuoio nei polsi e tu che mi chiami mio piccolo oceano di
croci e mi dici che il tempo ora il tempo è finito e mi dici mi gridi mi
inscrivi mi arrivi alla nuca mi sfiori le palpebre e dici che il tempo ora è
vuoto che siamo senza più vesti né remi che siamo le orecchie del tempio mi
dici e mi sfiori e lieve nel nulla mi lanci la palla che lieve si inarca e
compone nell’aere falene di silenzio mentre l’aereo di linea sorvola venezie e
costoni innevati rombando in silenzio e la bimba si slaccia la cintura si slaccia
dal sedile e galleggia nell’aere e poi si copre gli occhi con le mani in volo
nascondendo il sorriso tra le dita che scappa dalle dita e dice il mondo guarda
il mondo da qui com’è piccolo e lontano e sfringuella la bimba scalene
cantilene d’incertezza ma io sono qui se ti scrivo ben saldo sul mondo su un
sedile d’acciaio ben saldo sul labile mondo che importa se volo e canto lune e
curvo l’ala planando su urodeli e salamandre ma la bimba che plana è senza veli
nel ventre profondo la bimba linfa nel labile anello del tempo e la chiami mio
minimo oceano di croci la chiami per nome nel carcere blu nelle cinghie
sfiorando le liquide e dolci macerie le falde dei fax delle urgenze i minimi
bip il frusciare di dita su tastiere e sere ricolme di urgenze e profumo di
fresia senza veli planando la chiami e mi chiami mi dici mio oceano di croci mi
dici mio oceano che il mondo ora è vuoto e siamo senza armi e mi vieni liquida
in grembo e mi sfiori mi scrivi alla lavagna segni graffi nell’inguine
nell’unghia nella gola quando la riga delfina sorvola l’angolo acuto dell’onda
mentre la macchina dell’aurora si fa vera in questo anfiteatro di colline che
se fosse d’estate vedresti fiorite d’asfodeli e di mieli e di lievi ricami
verbali forse un poco gualciti ma ancora capaci di graffi nella piega
illeggibile del mondo dal respiro animale nel mare illeggibile e illegale e
invece è inverno e c’è un roveto di ghiaccio e un cielo in candore e qui vedi
una famiglia di topini intirizziti prigionieri del ghiaccio e rintanati nel
cunicolo comodo del sabato e le zampette avvinghiate a ciarle telematiche e
l’affanno nel respiro piccino topigno tignoso e non arreso che ti fanno ciao
ciao con la zampina che non sai se è vera o di plastica ed intorno c’è il tempo
che bussa c’è una riga delfina che slabbra e si flette plurale animale mentre
sorge una dolce canzone un veliero di luci e la macchina infelice dell’addio e
non sai se finisce questo addio o se è un modo per dire prosegui qui ed ora qui
ed oltre ma vedi tu mi dici mio oceano di croci che non deve finire e poni ai
piedi nuove scarpe da trekking poni ali in attesa in smemoria nel tempio
sepolto del sonno mentre vedi fili d’erba capelli impigliati nella notte
davanti a questo ponte dove in marzo un mazzo di rose ristagna per terra sul
luogo del disastro (mentre pullula molle la folla di telecamere polizia
giornalisti disposti a raggiera come api ingrassate intorno al luogo) perché
vedi qui è stato il disastro la tremenda esplosione qui ti è stata rubata la
voce qui è il ponte che ti beve ti implode ti smisura
Questo testo poetico, che si compone di un unico lunghissimo verso, è stato pubblicato in forma di libro d'artista in edizione manufatta e successivamente in plaquette con le edizioni Anterem (Verona 2000) in occasione della XII edizione della rassegna "Portici inattuali" (Sitran d'Alpago, a cura di Flavio Da Rold, Gaetano Ricci, Giorgio Vazza, intervento critico di Angelo Bertani), dove è stato "oggettualizzato" in una mia installazione presso il Fienile del Podestà.
Recensione di ALESSANDRO FO
Pubblicata in “L’indice” n. 6, 2001
e nel volume “Poesia 2000, Annuario critico” (a cura di G. Manacorda) ed. Castelvecchi, Roma 2001
Perfettamente in linea con il
clima di sperimentazione che contrassegna il marchio delle Edizioni Anterem, e
provenendo dal certame poetico “Lorenzo Montano” ivi organizzato, precipita in
preziosa plaquette l’“esposizione
testuale” di Alfonso Lentini (pittore, poeta, prosatore e inesauribile
inventore di libri d’artista) consistente in una “poesia composta di un unico
verso lungo 915 parole”. La ricerca di Lentini, nei molteplici campi in cui si
articola, sembra muovere da, e tendere verso, un’attonita, stralunata
meraviglia. Fra le mille prove che se ne potrebbero addurre, va ricordato
l’affascinante (anche se trascurato dai canonici organi d’informazione)
romanzo-saggio La chiave dell’incanto,
pubblicato da Pungitopo a Messina nel 1997: una documentatissima rêverie sulla figura dell’artista
Filippo Bentivegna che, divenuto folle, prese a intagliare su rocce e alberi
della sua proprietà (nonché sul manto dei suoi cani) quelle selve di teste che
oggi, a Sciacca presso Agrigento, costituiscono il cosiddetto Giardino
Incantato. Lentini porta la fantasia a reagire con il reale, installandovela in
forma di creazioni che premono per sfondarne le abituali pareti o per aprirvi,
in spazi minuscoli, lacune attraverso cui fare affiorare una dolente pensosità.
La plaquette in questione
‘addomestica’, rendendola maneggevole, la complessa operazione architettata, a
fine 2000, nel quadro della XII rassegna d’arte contemporanea Portici inattuali di Sitran d’Alpago,
non lontano da Belluno. La lunga sequenza di parole, spesso concatenate da
minimi spostamenti fonetici (paronomasie, allitterazioni), correva
nell’occasione su un unico nastro tutt’attorno al Fienile del Podestà: la sua
orizzontalità andava a formare una croce ideale con una composizione verticale
posta al centro dello spazio espositivo, contenente un assemblaggio di “piccoli
lavori su carta in struttura modulare e in forma di ‘pagine’ ” denominati insulae. Sul pavimento, intanto, dodici
catini di plastica bianca costituivano un primo insieme di “minimi oceani”:
colmi di un’acqua allusiva (ma con discrezione) alla sventura del Vajont,
esibivano galleggianti schegge di testo; un secondo insieme di oceani risultava
da otto brocche in vetro, allineate su una
trave, in cui flottava un’altra versione della poesia. Le due parole
chiave dell’installazione condensano allora il titolo di tutto il sofisticato
congegno verbo-visuale tramite cui, lasciando una traccia impalpabile “siccome
lampara lucente sulla pelle marina di notte”,
“l’urgenza della mano si fa viva nel melame ramato del tempo”.
Alfonso Lentini, Mio minimo oceano di croci, Verona, Anterem Edizioni, 2000, plaquette s.i.p.
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