In questo blog intendo offrire una documentazione sulla mia attività nel campo della scrittura e delle arti visive.

Il titolo, La riga delfina, è riferito all'incipit di una mia poesia ("Mio minimo oceano di croci") il cui testo si può leggere in una delle "pagine" qui accanto.


Un bellunese di Patagonia


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Alcune recensioni


Recensione di Michela Fregona,
dal "Corriere delle Alpi", 9 marzo 2005

Se, come si dice, c'è un tango per ogni cosa, quello di Sergio Dal Farra - nato a San Carlos de Bariloche da genitori italiani, giovinezza argentina interrotta da un frettoloso volo Alitalia e un trapianto forzato nella Belluno dei suoi avi - appartiene sicuramente alla stirpe dei più famosi: "Pero el viajero que huje/tarde o temprano detiene su andar" dice il "Volver" legato alla leggendaria brillantina della coppia Gardel-Le Pera. E proprio così è stato, nella vita di Sergio Dal Farra, oggi piccolo imprenditore edile lontano migliaia di chilometri dalle luci del lago del Parco Nazionale Nahuel Huapi che l'ha visto crescere: anche il viaggiatore in fuga, tardi o tosto, ha dovuto fermare il proprio passo.
Ma la sua è stata una fermata di quelle che non si dimenticano: anzi, cambiano radicalmente l'esistenza, la fanno girare su sé stessa mutando panorami, attese e silenzi.
Proprio a questo passaggio dedica il suo ultimo libro Alfonso Lentini: il suo "Piccolo inventario degli specchi" ha appena compiuto due anni, che Stampa Alternativa accoglie nella sua collana una nuova produzione, un romanzo di quasi duecento pagine intitolato "Un bellunese di Patagonia", uscito da poche settimane nelle librerie.
Nato dalle conversazioni durate a più riprese tra il 2002 e il 2003, il libro, che racconta a due voci le avventure di Sergio Dal Farra, risale all'indietro nel tempo, a tratti con il sapore di un romanzo di formazione nel quale nulla sembra infine frutto del caso. Già l'immagine di apertura - Sergio bambino che assiste al rituale selvaggio dell'uccisione di un maiale - assume i contorni sinistri di un presagio: e la narrazione, di fatto, palleggia l'inquietudine di capitolo in capitolo sino a portarla alle estreme conseguenze.
Non è facile crescere consapevoli ai confini del mondo. Non è facile, soprattutto, crescere liberi ai confini dell'uomo, quando nella società qualcosa va in cortocircuito. E il Sergio che si fa strada tra le pagine del romanzo di Alfonso Lentini è un ragazzetto che, da subito, inizia a sbattere contro porte invisibili e incongrue: quando anche un tema di studente deve essere eliminato perché contiene idee sospette, allora il suo autore si rende conto che il suo personale pensiero, lui stesso, può essere considerato sospetto. Senza capire perché, o da chi sospettato.
E' questo il momento in cui inizia il viaggio: verso la città più grande, verso gli studi, la giovinezza piena del Centro Estudiantil, l'amore rubato alla politica e per la politica perduto. E poi l'impegno. Che, nell'Argentina di Videla, non può che tenere dietro ad altri nomi: clandestinità, sparizioni, violenza. Il clima si fa pesante.
"Ogni strada è sbarrata. Manca davvero il respiro, in quei mesi - scrive Lentini - Se si apre la finestra entra un vento sporco e maleodorante. Cosa sta succedendo là fuori? Come sempre nelle giornate primaverili le ragazze passeggiano sui marciapiedi abbracciate a due a due, la gente continua come sempre a sedere nelle panchine, nei parchi cittadini stazionano donne che lavorano a maglia, vecchi che sminuzzano il pane per i passeri, mendiche rugose che trascinano i loro fagotti di stracci e cibo avariato, una scimmia attraversa la strada saltellando, mentre dai rami insieme al polline cade qualche piuma di uccello, qualche seme, una foglia leggera. Gli alberi continuano a crescere come hanno sempre fatto e covano i germogli per la bella stagione, ma gli uomini stanno affilando coltelli dalle lame gelate".
Sergio cresce in fretta, nella clandestinità. Cresce fino quasi a scomparirne: scampa per un soffio a una "patota", sente vicina la minaccia. E decide di scappare. Di vivere.
"Condividendo complicità e passioni, in sostanza non abbiamo fatto che inventare una storia vera" scrive Alfonso Lentini nella nota di chiusura. Come tutte le vicende che segnano, anche questa - che, tra l'altro, è stata condivisa da molti della stessa generazione - non ha bisogno di giustificazioni. Basta il fatto che sia stata.


Michela Fregona


Recensione di Romano Luperini

Da "L'immaginazione" n. 213, luglio 2005
(Rubrica "Diario in pubblico")

Qualche anno fa, fra le recensioni a un mio romanzetto autobiografico, mi colpì una di un autore a me sino allora sconosciuto. Alfonso Lentini, pubblicata dall'"Indice dei libri". Ora vedo che Lentini ha pubblicato a sua volta un romanzo, "Un bellunese di Patagonia", uscito da un piccolo editore di Viterbo (Stampa alternativa-Nuovi Equilibri), storia vera di Sergio Dal Farra, nato in Argentina da genitori bellunesi, impegnato nella lotta clandestina e nella guerriglia contro i generali golpisti di quel paese e fuggito poi in Italia, nel paese da cui provenivano i genitori.
Quella recensione mi aveva impressionato per la capacità del recensore di cogliere due aspetti di quel mio libretto, quello emotivo-individuale e quello politico-generazionale. Leggendo questo suo romanzo, capisco perché. Un bellunese in Patagonia, infatti, racconta la vicenda di un ragazzo e poi di un giovane nelle sue esperienze private (l'uccisione di un maiale a cui ha assistito da piccolo, la scuola, il rapporto con la natura,
gli amori) e in quelle pubbliche di militante della sinistra in una situazione di crisi drammatica.
Inoltre l'autore si pone - come anch'io avevo fatto - il problema del rapporto fra verità storica e costruzione romanzesca, fra testimonianza e invenzione, cercando di risolverlo con un doppio piano narrativo: quello in corsivo, in cui a narrare è un io che espone le proprie vicende (e qui si tratta di Sergio Dal Farra in persona, individuo vivo e reale), e quello in tondo, in cui il racconto procede invece in terza persona. In entrambi, comunque, l'impegno dell'autore è massimo: mira a una concentrazione lirica e politica, a una intensità dell'invenzione o della passione e del documento che colloca questo libro decisamente al di là del minimalismo o del manierismo o del divertissement postmoderni.
A poco a poco, nel corso della narrazione, il tono della testimonianza storica tende a prevalere: i due piani si intrecciano infatti sempre più strettamente e il lettore viene catturato e pienamente coinvolto in una storia drammatica di clandestinità e di lotta politica. La vicenda, insomma, funziona, ed è difficile staccarsi da queste pagine senza essere arrivati alla conclusione del libro. Nella parte iniziale, invece, lo scarto fra le due parti è più sensibile: da un lato, la voce dell'io suona meramente referenziale, dall'altro
quella in terza persona oscilla fra il referto oggettivo della cronaca e il tono soggettivo dell'accensione lirica e della violenza espressionistica. Di qui, in questa zona iniziale, alti e bassi: a parti di estrema intensità e invenzione linguistica (per esempio, quello iniziale dell'uccisione del maiale rappresentata attraverso l'ottica di un bambino) ne seguono altre di cronaca più scolorite, in un linguaggio giornalistico e dunque perlopiù grigio e convenzionale.
A questo punto mi pare che Lentini, che si occupa anche di arti visive, se vuole continuare a fare lo scrittore, abbia davanti a sé due strade: o riprende la direzione del romanzo-testimonianza o del romanzo-saggio, o batte invece la via dell'intensità lirica e/o espressionistica. Ovviamente anche in questo secondo caso può recuperare il tema politico e documentario, ma calandolo all'interno di una scrittura di taglio soggettivo e
d'invenzione linguistica. A giudicare dalle pagine iniziali più riuscite, gli consiglierei la seconda via.
Uno scrittore che tende così evidentemente all'intensità -e dunque al resoconto di emozioni e di passioni (anche politiche)- non può accontentarsi di soluzioni documentarie e di soluzioni opache, anche se capaci di conquistare il lettore e di avvincerlo a una trama (come qui accade nella parte centrale e finale). Il tema politico va risolto -e Lentini mostra qui, a tratti, di poterlo fare- non in convenzionalità espressiva, ma in concentrazione linguistica e stilistica.

Romano Luperini




Recensione di Raoul Schenardi
su "PULP" n.57, (settembre/ottobre 2005)

Alfonso Lentini
Un bellunese di Patagonia
Stampa Alternativa, pp. 189
Euro 12

Nella piazza principale di Bariloche, località argentina amata dai turisti e dalle ex SS come Priebke, c’è una statua di bronzo di Primo Capraro, bellunese che “insieme ai sacchi di farina per la polenta, traghettò parole sonanti di un dialetto antico”. E di Belluno è originario anche il protagonista della vicenda biografica ricostruita nel romanzo. Dell’infanzia felice negli anni ‘60 all’interno della comunità degli emigrati italiani, relativamente benestanti – dove si ascoltava Bobby Solo, Rita Pavone e Little Tony, e si considerava con un certo disprezzo la cultura argentina, compreso il tango –, Sergio ricorda alcuni momenti cruciali, altrettante epifanie che segnano lo sviluppo della sua sensibilità: l’uccisione di un maiale, lo straniamento di un Natale che cade in estate (“E vieni in una grotta al freddo e al gelo..., così si canta a Bariloche, anche se sono tutti in costume da bagno”), la scoperta delle enormi disuguaglianze sociali, la fugace iscrizione a un seminario a tredici anni, la timidezza nei rapporti con le ragazze.
Poi, con il trasferimento a La Plata nei primi anni ’70, lo scenario muta radicalmente: Sergio entra in contatto con le idee e gli ambienti rivoluzionari. È la parte “politica” del romanzo, lo sfondo storico su cui maturano le sue scelte drammatiche: di fronte alla radicalizzazione dello scontro fra peronisti di destra e di sinistra opterà per la lotta clandestina e la militanza nell’ERP, l’Esercito Rivoluzionario del Popolo – “Col senno di poi dico: va be’, ringrazio la buona sorte di non aver nessuna vita umana sulla coscienza” –, fino a dover prendere la via dell’esilio che lo riporterà a Belluno. Ed è un susseguirsi di riunioni e di azioni dimostrative, mentre gli squadroni della morte a bordo delle Falcon nere senza targa sequestrano militanti e simpatizzanti di sinistra, fino al colpo di Stato dei militari nel 1976.
Il romanzo nasce da una serie di conversazioni di Alfonso Lentini, bellunese d’adozione, con Sergio Dal Farra, bellunese “di ritorno”, e un motivo supplementare d’interesse è proprio la visione della città, di cui fa capolino anche il dialetto: “Belluno è una sfera di cristallo chiusa nel pigro attivismo di tranquilla e operosa cittadina del Nordest innamorata di se stessa e del suo isolamento dal mondo”. Convincente la scelta d’intercalare la narrazione in terza persona – dove Lentini ricorre alle sue doti di affabulatore e di poeta – con gli interventi del protagonista, che immergono il lettore nell’immediatezza dell’azione.

Raul Schenardi




Recensione di Toni Fontana
Da L'Unità

del 18/04/2005

Dalla Patagonia a Belluno
Testimonianze. Alfonso Lentini

DALLA PATAGONIA A BELLUNO
E FUORI DALLA LOTTA ARMATA

Argentina, Brasile e molti altri paesi dell'America latina (e non solo) sono stati per molti decenni, prima e dopo la seconda guerra mondiale, terra di immigrazione per decine di migliaia di veneti, molti dei quali bellunesi. Il legame con quelle terre lontane e l'Italia è stato finora filtrato da associazioni di amicizia e culturali, ma raramente sono rimaste tracce di vicende individuali, di storie che hanno coinvolto gli immigrati veneti nelle nuove terre. Per questo il racconto scritto da Alfonso Lentini, siciliano di Agrigento trapiantato a Belluno, è una lettura controcorrente nel senso letterale del termine. Il racconto contenuto nel libro "Un bellunese di Patagonia" (Stampa Alternativa, 189 pagine, 12 euro) non è, come potrebbe far pensare il titolo, la "solita" storia dell'emigrante con la valigia in mano, ma il ritratto di Sergio Dal Farra nato nel 1950 a San Carlos di Bariloche da genitori veneti bellunesi. Narra la vita di un giovane che, nell'Argentina dei dittatori e dei desaparecidos, sceglie la lotta armata ed è quindi costretto alla fuga in Italia. La vita "ai piedi delle Ande, in una remota località a 1800 chilometri da Buenos Aires" non si adatta ad un giovane attratto dal Che Guevara e insofferente per le profonde ingiustizie sociali nell'Argentina di quegli anni. L'arrivo alla Plata coincide, nei primi anni 70, con l'adesione all'Erp, Esercito Rivoluzionario del Popolo e con l'inizio della vita in clandestinità che "è una cosa tristissima, che tende ad isolarti da tutto e da tutti; non hai più voglia di frequentare persone che non la pensano come te. . ".
Il racconto di Lentini, che alterna la cronaca dei fatti alle testimonianze di Sergio Dal Farra, coinvolge il lettore che si scopre immerso in quegli anni terribili. "Io sono sempre stato un pacifista, un antimilitarista, la violenza mi fa schifo - racconta il protagonista che tuttavia diventa "un topo in fuga" in un'Argentina dove ogni notte "si scatena la caccia all'uomo" e nella quale ogni giorno i camion scaricano decine di corpi nelle fosse comuni. "Un bellunese di Patagonia" non è un libro di storia e dunque il lettore non vi trova analisi critiche, anche sugli errori della lotta armata in quegli anni, ma, nei capitoli conclusivi, il protagonista Sergio Dal Farra spiega con chiarezza che "la lotta armata e tutte quelle cose lì, in Italia non avrebbero alcun senso per un'azione politica della sinistra. In Italia c'è la democrazia, ci sono mille altri modi per lottare". A questa convinzione Sergio approda nei giorni del rapimento Moro quando constata l'isolamento delle Brigate Rosse e vede che sono proprio le organizzazioni storiche della sinistra a contrastare il terrorismo.

Toni Fontana


Recensione di Marco Calabria
Da "CARTA", Cantieri Sociali
n. 29,  luglio - agosto 2005

ANDATA O RITORNO
STORIA DI UNO STRANO VIAGGIO CIRCOLARE TRA LA PATAGONIA  E LE DOLOMITI BELLUNESI

Alfonso Lentini
Un bellunese di Patagonia
Stampa Alternativa, pp. 189
Euro 12

«È STATO SEMPRE COSI', nella storia, nelle religioni. L'idea di andare verso un altro mondo, verso la Gerusalemme celeste. Oppure il viaggio di Ulisse a Itaca, che per noi, da giovani, era lottare per il potere e la società socialista. Un luogo dove arrivare, qualcosa che dovevamo prendere. Ma la vera felicità, ciò che ti fa sentir vivo, libero, è camminare 'verso' quel luogo». Sono parole, recentissime, di Luis Mattini, scrittore argentino e leader, prima clandestino e poi esiliato, del Partido revolucionario de los Trabajadores degli anni settanta. Al braccio armato del Prt, l'Esercito rivoluzionario del popolo, aveva aderito, poco più che ventenne, anche Sergio Dal Farra, nato in Patagonia da italiani migranti e oggi piccolo imprenditore in Veneto. È lui il protagonista di «Un bellunese di Patagonia», un racconto denso e leggero che aspira a lasciare un graffio nell'aria, il diario di un viaggio e di una vita piuttosto straordinaria con due voci narranti, quella di Alfonso Lentini e quella, liberamente trascritta, di Sergio.
A noi è sembrato che la bella intervista a Mattini [6/5/05, www.lafogata.org] avesse molto a che vedere con la storia che inventa la realtà raccontata da Dal Farra e Lentini. E ci sono diverse, piacevoli ragioni per leggere quella storia: dallo stravagante intreccio dei paesaggi che si specchiano, con l'iridescenza dell'enrosadira dolomitica e i silenzi incantati del lago del parco argentino Nahuel Huapi, alle immagini forti dell'infanzia di Sergio, con l'uccisione del maiale, presagio del futuro rifiuto del sangue e della violenza. Ci sono i giochi, i sogni e le paure di un bambino nei desolati spazi patagonici martellati dal vento e i riti familiari intorno alla polenta con la trama fitta dei legami sociali nella comunità bellunese emigrata.
Nell'orrore delle carneficine militari e dei sequestri si scivola con un nuovo interminabile viaggio, stavolta in treno, verso La Plata e il suo Centro Estudiantil colmo di discussioni accese, incontri e passioni che cuociono lente intono alla carne «asada». È il preludio alla clandestinità, all'assassinio dei compagni più vicini e all'angoscia di sentirsi in trappola, fino all'avventurosa fuga verso l'Italia, paese originario e insieme sconosciuto. Un viaggio circolare, raccontato attraverso un dialogo, un gioco, quasi un'ossessione di specchi. E sono l'originalità di quel dialogo e l'intreccio ricamato e mai banale delle due voci a fare di «Un bellunese di Patagonia» un libro speciale.
Lentini ricostruisce i contesti, interpreta, a volte cede al commento, ma conserva il rigore nel tratto più delicato e prezioso: non rappresentare la parola di un altro, la vita di un amico. Non parla per lui. Solo così il doppio livello narrativo può mantenere la libertà e la felicità dell'«andare verso» di cui scrive Mattini. La mancanza di un approdo certo, di un «obiettivo strategico» avrebbero detto i militanti italiani e argentini, è ciò che rende
vivo il viaggio e lo spazio letterario. «Il tempo ha fatto una curva strana» riportando Sergio a Belluno, dov'era stato concepito, «ma il cerchio stenta a chiudersi: i cicli sono sempre uguali e diversi», chiosa Lentini. Così come il mondo «altro» che Sergio sognava, e certo sogna ancora, è lo stesso che stiamo vivendo [e facendo] ogni giorno. A Belluno e in Patagonia.

Marco Calabria

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